Sono stati 36 giorni. Domani saranno 37. Domani, molto probabilmente, tornerà a casa. Lui . Mio figlio. Quello tremendo. Quello che per solidarietà con un amico fraterno è stato sparato. Oppure, come si dice in italiano corretto, gli hanno sparato. Il 24 novembre. Lui ha preso a cazzotti un tizio. Quel tizio. Quello è entrato in ufficio, ha aperto il cassetto, ha preso la pistola, gli è corso dietro e gli ha sparato alle spalle. Due colpi. Due colpi che hanno attraversato l’addome in diagonale prendendo un polmone, una vertebra di striscio, una parte del fegato, sfregiato il pancreas, esploso una parte dell’intestino. Così si espresse il chirurgo che la prima notte lo ha operato. Colui che per primo ha contribuito a salvarlo. Quattro giorni di coma farmacologico. Un secondo intervento, il risveglio. La diagnosi dello stress da shock traumatico. Quindici giorni di insonnia, di incubi , di notti in bianco, di carezze sulla testa perché lui ce le chiedeva, così’ era sicuro che eravamo vicini a lui. Il terzo intervento. Dove gli hanno tolto la milza. Dove gli hanno tolto due terzi del pancreas. Lui che dice che lo ha salvato DIO.  Che lo ha portato in quell’ospedale con quei medici, con quei chirurghi che lo abbracciano, lo chiamano per nome e si chiedono com’è che ce l’ha fatta. Gli hanno dato una stanza singola dove lui può ricevere a qualsiasi ora i suoi figli , i suoi amici, i suoi cari. Dove può usare la wifi e comunicare. Dove può giocare alla playstation e dormire quando ha sonno. Dove ha reimparato ad alzarsi in piedi e camminare pian piano. LUI. Domani torna a casa. Vivo. Pronto per un nuovo percorso di vita. Auguri e buona Vita. Io che dico? Non si finisce mai di partorire.

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